STUDI RISORGIMENTALI

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La guerra d'Africa “…ricorderete che dov’è la nostra bandiera

V’è il mio cuore di Re e di Soldato…

UMBERTO (Proclama del 1878)

 

La guerra che l’Italia dovette sostenere nel decennio dal 1886 al 1896 nell’Eritrea, aveva scatenate ire feroci e furibonde, quasi che questa fosse stata la conseguenza di un atto impulsivo e ingiustificato del Re, e non una necessità, dolorosa ma inevitabile, imposta dalle tendenze espanditrici dei tempi moderni. L’interesse di usufruire delle ricchezze d’un immenso territorio, quello della scienza spingente a conoscere e studiare usi e costumi nuovi, lo stimolo di aprire altre vie al commercio, l’entusiasmo di apportare fra le genti barbare i lumi della civiltà, spinsero le potenze europee in quell’Africa, che da secoli assai lontani fu sempre occasione di dissidi e di guerre e nella quale, dopo varia fortuna, stabilirono impero effettivo o protettore l’Inghilterra, la Spagna, la Francia, il Portogallo, la Germania, il Belgio e la Turchia. Negli ultimi tempi le tendenze coloniali acquistarono maggior impulso, perché gli urgenti bisogni d’espansione, imposti dallo incivilimento, creavano la necessità di trovar grandi e vergini sbocchi ai prodotti delle arti e delle industrie. E le tendenze degli Stati europei accentuavansi specialmente nella conquista dell’Africa, e con tale energia da costituire uno dei fatti più salienti del secolo passato. Tale condizione era già stata intuita e riconosciuta dalle più elette intelligenze, e Giuseppe Mazzini, nel volume 16° della sua opera universale, aveva scritto: “Popolata in tempo dall’immigrazioni asiatiche che ci recarono i primi germi della civiltà, l’Europa tende oggi provvidenzialmente a riportare all’Asia la civiltà sviluppata da quei germi sulle proprie terre civilizzate e preme sull’Africa e l’invade; prima un tempo e più potente colonizzatrice del mondo, vorrà l’Italia rimanersene ultima a questo moto?...”    E l’Italia costituita in nazione opportunamente secondo il movimento generale, ed agevolata da una precedente influenza acquistata fin dal 1857 a cura del Piemonte, che vi aveva spediti e mantenuti insigni missionari, iniziava la impresa nel 1879 acquistando il territorio di Assab, che  Bereham, Sultano di Raheita, aveva venduto per deposito di carbone alla società di navigazione Rubattino. Intanto fra le popolazioni africane s’accentuava un sentimento di feroce fanatismo, abilmente alimentato, a danno degli europei che viaggiavano a scopi scientifici e commerciali, e tale fanatismo cieco e brigantesco determinò nel 1880 l’eccidio di 12 italiani, presso Beilul, della spedizione Giulietti e Balieri, e più tardi nelle vicinanze della Tribù di Marvajo al massacro di quella guidata da Gustavo Bianchi.

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L’Italia intanto per garantire il possedimento di Assab, già costituito in colonia col legge 9 luglio 1882, previ accordi con l’Inghilterra, fece passare per l’Egitto un corpo di spedizione, che s’impadronì dapprima di Beilul e di Cubli, occupando poi Massaua, località di circa 16 000 abitanti, collocata su di un’isola congiunta al continente da una diga.  Da Massaua gli italiani si spinsero, occupandoli, a Saati, Arkiko, Zula, Monkullo, Arafali, mentre innumerevoli tribù di quei luoghi in continue guerre fra loro, accettavano il nuovo dominio italiano che era per essi promessa di pace e di garanzia  delle persone e degli averi. Ma le località occupate Occupazione di Massaua (1885)  confinavano con l’Abissinia, al cui Re Giovanni, quella vicinanza parve una minaccia per la integrità del suo Stato. Nel nome del Negus protestava il governatore dell’Hamausen, Ras Alula, il quale per rappresaglia imprigionava e conduceva a Ghinda il maggior Piano, il tenente Savoiroux e il conte Salimbeni, a lui mandati in missione, minacciando di decapitarli, investendo, poi, il 25 gennaio 1887, con forze preponderanti, Saati. Respinto dai coraggiosi difensori, Ras Alula, radunati sotto le sue insegne circa 20 000 uomini, al nuovo giorno sorprendeva a Dogali la colonna comandata dal tenente colonnello De Cristoforis, che forte di 500 italiani e di 48 indigeni assoldati, si dirigeva a soccorrere Saati. La colonna aveva sicura la ritirata, perché trovatasi a 3 ore da Monkullo; tuttavia preferì la battaglia e ridottasi ad un’altura mettevasi in difesa frapponendo al riparo il convoglio dei viveri. Urlanti a guisa di belve, i furibondi africani attaccarono furiosamente e favoriti dall’enorme preponderanza delle forze, dalla conoscenza del terreno, superarono la resistenza tenace, accanita, disciplinata de’ nostri, i quali, novelli fabi, cadevano        I caduti di Dogali, 1887   volgendo l’estremo pensiero alla patria lontana. De Cristoforis, pressoché morente per  le ferite riportate, riunì i pochi tuttavia in vita e prima d’opporre l’ultima difesa, comandò ad essi di onorare i compagni caduti, presentando loro le armi. Dopo poco quel pugno d’eroi, votatasi alla morte benedicendo all’Italia. Nessuno indietreggiò d’un passo, ed il capitano Tanturri che fu sul luogo, immediatamente dopo il conflitto, nel rapporto al comando di Massaua  scriveva: Tutti giacevano in ordine, come fossero allineati.

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A vendicare intanto l’immeritata sventura, che aveva commosso, agitato, entusiasmato, tutto il popolo d’Italia, partiva una spedizione di 12 mila uomini comandata dal generale San Marzano. Ma il Negus, tenendosi sempre sulla difensiva non volle mai accettare battaglia. Morto Re Giovanni, e succedutogli Menelik, questi, astutamente addimostrò di professare amicizia all’Italia, lasciando che dal canto nostro si occupassero mano a mano Keren e l’Asmara, occupazione che incontrò l’approvazione della parte competente ed illuminata della pubblica opinione italiana, che aveva anzi influito ad accelerare il movimento con voti e indirizzi, come ad esempio praticava la Società Geografica Italiana. Ma la malafede africana lavorava pazientemente e tenacemente, e Menelik, tacitate le ire e le gelosie tra tribù e tribù, tra Ras e Ras, aveva attorno a sé costituito un esercito numeroso, forte avido di battaglia e di vittoria.  E cominciarono allora le battaglie, e Baath-Agos, governatore dell’Okulè-Cusai, d’accordo con Ras Mengascià il 10 novembre 1894 attaccava gli italiani che, comandati dal maggiore Toselli lo vinsero, mentre poi il gennaio 1895 Ras Mengascià veniva a sua volta distrutto dal generale Baratieri  nelle gloriose giornate di Coatit e Senafè.  Questi successi sollevarono il prestigio del nome italiano ma l’Italia in quel periodo era straziata da dolorosi fatti interni, che tenevano paralizzato il governo e lo rendevano incerto e titubante ad assumere un’azione energica, risoluta, completa, come i fatti richiedevano, come il generale Baratieri reclamava. Ma si dovettero, per viete ragioni d’opportunismo politico e parlamentare, lesinare uomini e denari: ciò che si fece, si dovette fare alla chetichella, quasi di nascosto, mentre per il paese serpeggiava sorda ma minacciosa, l’idea rivoluzionaria, alla quale Francesco Crispi, con anima poderosa di italiano, teneva fronte, impavido e grande, salvando le istituzioni da una minacciata rovina.  E così invece che provvedere ordinatamente e seguendo i criteri tecnici e militari dei competenti, invece di inviare corpi completi d’esercito, si organizzarono piccole e saltuarie spedizioni, racimolando qua e là per i vari reggimenti pochi uomini per compagnia, i quali partivano fra le dimostrazioni ostili della folla, agitata ed alimentata dai partiti sovversivi, che per vendicarsi dei Fasci disciolti, delle misure di rigore adottate dal Governo, delle condanne inflitte dai tribunali marziali, avvantaggiandosi della incertezza del Ministero che mal secondava l’opera altamente italiana del Crispi, compievano opera di demoralizzazione nazionale, dimenticando che sangue italiano era stato gloriosamente ma sventuratamente versato sulle zolle d’Africa, e che l’Italia aveva il dovere di vendicare…

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E così venne Adua… e un’onda d’inconsulta furia politica attraversò l’Italia e sommerse per un momento la coscienza del popolo: i partiti anticostituzionali, che non nascondevano la compiacenza provata per quella sventura nazionale, se ne valsero per assicurare un trionfo alle loro agitazioni, dianzi, impedite o limitate: la piazza impose le dimissioni del ministro Crispi, cui il Re non aveva concesso di prorogare nuovamente la Camera. L’annunzio delle dimissioni di quel Ministero fu accolto a Montecitorio con grida di “Viva il Re”, ma intanto, s’insinuava malignamente che questo era “prigioniero del partito militare di Corte” ciò che era assolutamente falso, non essendo mai esistito alla Corte di Umberto né un partito militare, né qualsiasi altra influenza politica sovrastante quella diretta, emanante dai poteri costituiti dallo Stato.Le vicende dell’Africa recarono gravissimo cordoglio al magnanimo Umberto, il quale nell’iniziare l’impresa coloniale aveva data prova di comprendere le esigenze della vita della Nazione e di non cedere alle obiezioni dei pigmei della politica, il cui principale argomento di confutazione era quello delle terre tuttora incolte in Italia, quasi che la fertilizzazione delle nostre contrade valesse a mantenere l’Italia nel prestigio di grande paese ed offrisse uno sbocco permanente alla esuberante popolazione ed alle necessità ognora crescenti della civiltà. Nei rovesci abbatterono in Umberto la fede nei destini della patria, i cui diritti sull’Abissinia erano consacrati dal sangue versato ed oggi affermati dallo slancio di quegli indigeni benedicenti all’opera di redenzione dell’Italia, per la quale effondono il loro sangue di figli devoti. E questa fede Re Umberto consacrò nell’omaggio reso ai caduti, inaugurando il 5 aprile 1897 la ventesima legislatura. Egli così disse: “…so intanto d’interpretare l’animo tutto degli italiani, mandando un saluto d’ammirazione e di riconoscenza all’esercito, che in mezzo alle straordinarie difficoltà ha combattuto con sì grande valore ed abnegazione e rivolgendo il pensiero a quei generosi che sacrificarono la vita in difesa della nostra bandiera, emulando gli esempi di antica virtù. Il memore affetto della patria, conforti le famiglie dei caduti…”.