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Battaglie nella prosa e nella poesia Corpi ed armi dell'Esercito Italiano
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“…ricorderete che dov’è la nostra bandiera V’è il mio cuore di Re e di Soldato… UMBERTO (Proclama del 1878)
La guerra che l’Italia dovette sostenere
nel decennio dal 1886 al 1896 nell’Eritrea, aveva scatenate ire feroci e
furibonde, quasi che questa fosse stata la conseguenza di un atto
impulsivo e ingiustificato del Re, e non una necessità, dolorosa ma
inevitabile, imposta dalle tendenze espanditrici dei tempi moderni.
L’interesse di usufruire delle ricchezze d’un immenso territorio, quello
della scienza spingente a conoscere e studiare usi e costumi nuovi, lo
stimolo di aprire altre vie al commercio, l’entusiasmo di apportare fra le
genti barbare i lumi della civiltà, spinsero le potenze europee in quell’Africa,
che da secoli assai lontani fu sempre occasione di dissidi e di guerre e
nella quale, dopo varia fortuna, stabilirono impero effettivo o protettore
l’Inghilterra, la Spagna, la Francia, il Portogallo, la Germania, il
Belgio e la Turchia. Negli ultimi tempi le tendenze coloniali acquistarono
maggior impulso, perché gli urgenti bisogni d’espansione, imposti dallo
incivilimento, creavano la necessità di trovar grandi e vergini sbocchi ai
prodotti delle arti e delle industrie. E le tendenze degli Stati europei
accentuavansi specialmente nella conquista dell’Africa, e con tale energia
da costituire uno dei fatti più salienti del secolo passato. Tale
condizione era già stata intuita e riconosciuta dalle più elette
intelligenze, e
***
L’Italia intanto per garantire il
possedimento di Assab, già costituito in colonia col legge 9 luglio 1882,
previ accordi con l’Inghilterra, fece passare per l’Egitto un corpo di
spedizione, che s’impadronì dapprima di Beilul e di Cubli, occupando poi
Massaua, località di circa 16 000 abitanti, collocata su di un’isola
congiunta al continente da una diga.
Da Massaua gli italiani si spinsero,
occupandoli, a Saati, Arkiko, Zula, Monkullo, Arafali, mentre innumerevoli
tribù di quei luoghi in continue guerre fra loro, accettavano il nuovo
dominio italiano che era per essi promessa di pace e di garanzia
delle persone e degli averi. Ma le località occupate Occupazione di
Massaua (1885) confinavano con l’Abissinia, al cui Re
Giovanni, quella vicinanza parve una minaccia per
la integrità del suo
Stato. Nel nome del
Negus
*** A vendicare intanto l’immeritata sventura, che aveva commosso, agitato, entusiasmato, tutto il popolo d’Italia, partiva una spedizione di 12 mila uomini comandata dal generale San Marzano. Ma il Negus, tenendosi sempre sulla difensiva non volle mai accettare battaglia. Morto Re Giovanni, e succedutogli Menelik, questi, astutamente addimostrò di professare amicizia all’Italia, lasciando che dal canto nostro si occupassero mano a mano Keren e l’Asmara, occupazione che incontrò l’approvazione della parte competente ed illuminata della pubblica opinione italiana, che aveva anzi influito ad accelerare il movimento con voti e indirizzi, come ad esempio praticava la Società Geografica Italiana. Ma la malafede africana lavorava pazientemente e tenacemente, e Menelik, tacitate le ire e le gelosie tra tribù e tribù, tra Ras e Ras, aveva attorno a sé costituito un esercito numeroso, forte avido di battaglia e di vittoria. E cominciarono allora le battaglie, e Baath-Agos, governatore dell’Okulè-Cusai, d’accordo con Ras Mengascià il 10 novembre 1894 attaccava gli italiani che, comandati dal maggiore Toselli lo vinsero, mentre poi il gennaio 1895 Ras Mengascià veniva a sua volta distrutto dal generale Baratieri nelle gloriose giornate di Coatit e Senafè. Questi successi sollevarono il prestigio del nome italiano ma l’Italia in quel periodo era straziata da dolorosi fatti interni, che tenevano paralizzato il governo e lo rendevano incerto e titubante ad assumere un’azione energica, risoluta, completa, come i fatti richiedevano, come il generale Baratieri reclamava. Ma si dovettero, per viete ragioni d’opportunismo politico e parlamentare, lesinare uomini e denari: ciò che si fece, si dovette fare alla chetichella, quasi di nascosto, mentre per il paese serpeggiava sorda ma minacciosa, l’idea rivoluzionaria, alla quale Francesco Crispi, con anima poderosa di italiano, teneva fronte, impavido e grande, salvando le istituzioni da una minacciata rovina. E così invece che provvedere ordinatamente e seguendo i criteri tecnici e militari dei competenti, invece di inviare corpi completi d’esercito, si organizzarono piccole e saltuarie spedizioni, racimolando qua e là per i vari reggimenti pochi uomini per compagnia, i quali partivano fra le dimostrazioni ostili della folla, agitata ed alimentata dai partiti sovversivi, che per vendicarsi dei Fasci disciolti, delle misure di rigore adottate dal Governo, delle condanne inflitte dai tribunali marziali, avvantaggiandosi della incertezza del Ministero che mal secondava l’opera altamente italiana del Crispi, compievano opera di demoralizzazione nazionale, dimenticando che sangue italiano era stato gloriosamente ma sventuratamente versato sulle zolle d’Africa, e che l’Italia aveva il dovere di vendicare… *** E così venne Adua… e un’onda d’inconsulta furia politica attraversò l’Italia e sommerse per un momento la coscienza del popolo: i partiti anticostituzionali, che non nascondevano la compiacenza provata per quella sventura nazionale, se ne valsero per assicurare un trionfo alle loro agitazioni, dianzi, impedite o limitate: la piazza impose le dimissioni del ministro Crispi, cui il Re non aveva concesso di prorogare nuovamente la Camera. L’annunzio delle dimissioni di quel Ministero fu accolto a Montecitorio con grida di “Viva il Re”, ma intanto, s’insinuava malignamente che questo era “prigioniero del partito militare di Corte” ciò che era assolutamente falso, non essendo mai esistito alla Corte di Umberto né un partito militare, né qualsiasi altra influenza politica sovrastante quella diretta, emanante dai poteri costituiti dallo Stato.Le vicende dell’Africa recarono gravissimo cordoglio al magnanimo Umberto, il quale nell’iniziare l’impresa coloniale aveva data prova di comprendere le esigenze della vita della Nazione e di non cedere alle obiezioni dei pigmei della politica, il cui principale argomento di confutazione era quello delle terre tuttora incolte in Italia, quasi che la fertilizzazione delle nostre contrade valesse a mantenere l’Italia nel prestigio di grande paese ed offrisse uno sbocco permanente alla esuberante popolazione ed alle necessità ognora crescenti della civiltà. Nei rovesci abbatterono in Umberto la fede nei destini della patria, i cui diritti sull’Abissinia erano consacrati dal sangue versato ed oggi affermati dallo slancio di quegli indigeni benedicenti all’opera di redenzione dell’Italia, per la quale effondono il loro sangue di figli devoti. E questa fede Re Umberto consacrò nell’omaggio reso ai caduti, inaugurando il 5 aprile 1897 la ventesima legislatura. Egli così disse: “…so intanto d’interpretare l’animo tutto degli italiani, mandando un saluto d’ammirazione e di riconoscenza all’esercito, che in mezzo alle straordinarie difficoltà ha combattuto con sì grande valore ed abnegazione e rivolgendo il pensiero a quei generosi che sacrificarono la vita in difesa della nostra bandiera, emulando gli esempi di antica virtù. Il memore affetto della patria, conforti le famiglie dei caduti…”.
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