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L’esercito italiano durante il colera del 1867

di Edmondo De Amicis

Nei mesi di gennaio e febbraio del sessantasette, il colera mietè qualche vittima nelle vicinanze di Girgenti, e specialmente in Porto Empedocle; donde nel mese di marzo, si sparse per tutta la provincia, e da questa, nell’aprile, in quella di Caltanisetta, e crebbe poi fierissimamente in entrambe nel mese di maggio, favorito dai calori estivi, che si fecero sentire un mese prima  a cagione della  lunga siccità. Né scemò punto nel giugno, eccetto nella città di Caltanisetta, in cui decrebbe rapidamente; che anzi, nei primi giorni di quell’istesso mese, invase la provincia di Trapani, quella di Catania, quella di Siracusa, e, sul cominciar di luglio, Palermo, e, sul cominciar d’agosto Messina, Intanto si era propagato per quasi tutte le altre province d’Italia, e particolarmente in quelle del mezzogiorno, e più che in ogni altra, in quella di Reggio, dove  menò la sua ultima e spaventevole strage sul cadere dell’anno. Nel maggior numero dei paesi, e particolarmente nei più piccoli, i sindaci e molti altri pubblici officiali abbandonavano il proprio posto al primo apparir del colera, e da qualche paese disertavano tutti ad un tempo colle famiglie e gli averi. I ricchi, gli agiati, tutti coloro che  avrebbero potuto soccorrere le plebi,  fuggivano dalla città e si rifugiavano nelle ville. In pochi giorni, tutte le case della campagna erano ingombre di cittadini fuggiaschi, e non solo di ricchi, ma di chiunque possedesse tanto da poter vivere qualche giorno senza lavorare, e prendere a pigione,  anche a costo di gravissimi sacrifici, un abituro, una capanna un qualunque bugigattolo, che pur fosse lontano dalla città e appartato, quanto era possibile, da ogni abitazione. Abbandonata a se stessa e impaurita dall’altrui paura e dalla solitudine in cui veniva lasciata, la povera gente, fuggiva anch’essa ed errava a frotte per la campagna, traendo miseramente la vita fra i languori della fame, Il generale terrore veniva  accresciuto dal ricordo delle grandi sventure patite negli anni andati; se ne predicevano, come sempre accade, delle peggiori;  si reputavano già tali fin dal loro cominciamento; in ciascuna provincia si esageravano favolosamente le stragi delle altre; in campagna si narravano orrori della moria  delle città;  in città altrettanto della campagna. Come si trovasse ridotta  la popolazione che rimaneva ne’ paesi, è facile immaginarlo. Tranne poche città, essendo abbandonate o disordinate  le amministrazioni comunali, si trascuravano i provvedimenti igienici di più imperiosa necessità. Talora le popolazioni, reputando fermamente che quei provvedimenti fossero inutili,  ricusavano di prestarvi l’opera propria, senza la quale essi riuscivano inefficaci, per quanto fosse il buon volere delle Autorità e lo zelo dei pochi cittadini che pensavano ed operavano direttamente. S’aggiunga che molti paesi erano rimasti senza medici, senza farmacisti, e tutti poi, anche i più grandi, erano desolati dalla miseria che la carestia dell’anno precedente aveva prodotto, e lo scarso ricolto di quell’anno, e l’enorme mortalità avvenuta negli armenti, accresciuto. Falliti gran parte dei negozianti; interrotta la costruzione delle strade ferrate;, lasciate a mezzo molte opere pubbliche provinciali e comunali; molti opifici chiusi; gli operai senza lavoro; serrate dapprima le botteghe di oggetti di lusso, da ultimo delle più necessarie; le officine abbandonate; centinaia di famiglie ridotte a vivere soltanto di erbe e di fichi d’india; in ogni parte la fame, lo scoraggiamento e lo squallore. Per colmo di sventura, si propagava ogni di più e metteva radici profonde nel popolo, l’antica superstizione che il colèra fosse effetto di veleni sparsi per ordine del governo, che il volgo di gran parte dei paesi del  mezzogiorno, per uso contratto sotto l’oppressione del governo cessato, tiene  in  conto d’un nemico continuamente  e nascostamente inteso a fargli danno per necessità di sua  conservazione. In Sicilia, questa superstizione era avvalorata del convincimento che il governo si volesse vendicare della ribellione di settembre, e però una gran parte dei provvedimenti sanitari presi dalle Autorità governative incontravano nella plebe un’opposizione accanita, ogni atto aveva il colore d’un attentato, in ogni ordine si sospettava  una mira scellerata, da ogni menomo indizio si traeva argomento e conferma del veneficio, in ogni nonnulla, se ne vedeva la prova. Gli Ospedali, le disinfezioni, le visite dei pubblici ufficiali, tutto era oggetto di diffidenza, di paura, di aborrimento. I poveri non si risolvevano a lasciarsi trasportare negli spedali che nei momenti estremi, quando ogni cura riusciva inefficace. Morivano la più parte, e per ciò appunto si credeva più fermamente dal volgo che le medicine fossero veleni,  e i medici assassini. Preferivano morire abbandonati, senza soccorsi, senza conforti. Non credevano al contagio, e però abitavano insieme alla rinfusa sani ed infermi, famiglie numerose in angusti ed immondi abituri, terribili focolari di pestilenza. Occultavano i cadaveri per non essere posti in isolamento, o perché ripugnavano dal vederli seppelliti nei campisanti, invece che nelle chiese, come in uso in molti di quei paesi; o per la stolta opinione che sovente gli attaccati dal colèra paiano, ma non siano morti per davvero, e rinvengano dopo qualche tempo, Si poneva ogni cura a deludere le ricerche delle Autorità. Spesso si resisteva con la forza agli agenti pubblici che venivano per trarre dalle case i cadaveri corrotti; si gettavano quei cadaveri nei pozzi, si sotterravano segretamente all’interno delle case. In alcuni paesi, per trascuranza delle Autorità o per difetto di gente che si volesse prestare al pietoso ufficio, i cadaveri, comunque non contesi dai parenti, si lasciavano più giorni  abbandonati nelle case, o venivano gettati o lasciati scoperti nei cimiteri, o si ricoprivano di poche palate di terra, così che intorno intorno ne riusciva ammorbata l’aria, e non si trovava più chi volesse avvicinarsi a  que’ luoghi, e bisognava scegliere altri terreni alle sepolture. I pregiudizi volgari  venivano segretamente fomentati dai Borbonici e dai Clericali. Erano sospetti di veneficio tutti gli agenti della forza pubblica, i Carabinieri, i soldati, i percettori delle Dogane, gli officiali governativi. In alcuni paesi della Sicilia era sospetto di avvelenamento qualunque italiano del continente; in qualche luogo tutti indistintamente gli stranieri erano sospetti., Si spargevano e si affiggevano per le vie  proclami sediziosi, eccitanti alla vendetta ed al sangue, Tratto tratto le popolazioni armate di falci, di picche, di fucili, si assembravano, percorrevano tumultuosamente le vie dei paesi cercando a morte gli avvelenatori; minacciavano o assalivano le caserme dei carabinieri e dei soldati; irrompevano nelle case dei medici, e le mettevano a sacco; si gettavano nelle farmacie, e vi distruggevano e disperdevano ogni cosa; invadevano l’ufficio del Comune, laceravano la bandiera Nazionale, abbruciavano i registri e le carte; costringevano le  guardie nazionali a batter con loro la campagna in traccia degli  avvelenatori;  andavano a cercarli nelle case; credevano d’averli rinvenuti, li costringevano coi pugnali alla gola a immaginare e confessare dei complici, li trucidavano, ne straziavano i cadaveri e li abbruciavano nelle vie e nelle piazze. Intere famiglie, accusate di veneficio, venivano improvvisamente aggredite di notte da turbe di popolani, e vecchi, donne, bambini cadevano sgozzati gli uni ai piedi degli altri senza aver tempo di scolparsi o di supplicare; e si ardevano le case, e se ne disperdevano le rovine. A Via Grande, a Belpasso, a Gangi, a Menfi, a Monreale, a Rossano, Morano, a Frassineto, a Porcile, nel Potentino, nell’Avellinese, in cento altri luoghi, continui assembramenti e ribellioni e delitti orrendi di sangue. Il sentimento doloroso che ci si desta in cuore alla memoria di quei giorni funesti, più che dalla notizia degli immensi danni che il colera produsse, vien forse dal pensare come la parte maggiore di codesti danni sia derivata dall’ignoranza quasi selvaggia dei volghi, e in generale dalla pochezza d’animo dei cittadini di tutte le classi. L’effetto più sconsolante, quantunque non inutile, di codesta sventura del colera, è forse stato quello di averci mostrato che nella via della civiltà siamo assai più addietro che non si soglia pensare, e che il cammino che resta a farsi è assai più lungo che non paresse dapprima, e che bisogna procedere più solleciti e più risoluti. Sarebbe, invero, assai difficile il dimostrare che, in occasioni consimili, di tempi assai meno civili dei nostri, la forsennatezza volgare sia andata più oltre e abbia dato di sé più deplorevoli prove, e che, nella generalità del popolo, oggi più che allora, dinanzi alle sventure e ai pericoli comuni, la ragione l’abbia avuta vinta sull’istinto, la carità sull’egoismo, il dovere sulla paura.

Ma che faceva l’esercito?

Il disordine delle amministrazioni e lo sconvolgimento e la paura generale avevano spirato audacia ai malandrini e ai briganti, e dato occasione che ne sorgessero dei nuovi, commettendo ogni maniera di furti e di violenze. La truppa, che non poteva cessar di dar la caccia a costoro, per quanto l’opera sua fosse indispensabile altrove, si trovava stretta così da mille obblighi diversi, gli uni più degli altri pericolosi e faticosi. La forza numerica dei corpi, che era scarsa di fronte ai bisogni dei tempi ordinari, riusciva affatto insufficiente per provvedere nello stesso tempo al servizio negli ospedali, ai cordoni sanitari e alla pubblica sicurezza. Tutti questi servigi erano però fatti dovunque scompartendo la forza quanto più fosse possibile minutamente; onde quasi dappertutto seguiva che i soldati non dormissero mai due notti di seguito in caserma, e mangiassero, non più ad ore prestabilite, ma così alla sfuggita, quando e dove ne avessero il tempo e il modo. Continuo moto, continua fatica, appunto in quei giorni che sarebbe stato necessario il riposo, la tranquillità ed ogni specie di riguardi. Non è a dirsi quanto la salute dei soldati ne scapitasse, e come da quella maniera di vita fosse resa presso che inutile la maggior cura che si poneva nella pulizia delle caserme, nella scelta dei viveri, e in molte altre cautele imposte dai superiori, e diligentemente, sotto la loro sorveglianza, osservate. Ma questi servigi erano tuttavia i meno gravosi, perché, se non sempre, ordinariamente però erano prestati da ciascun soldato a intervalli di tempo costanti, benché brevissimi e regolarmente stabiliti; per il che alle fatiche e ai pericoli si andava incontro con l’animo preparato. I servigi più duri erano quelli imposti tratto tratto da inattesi tumulti popolari, nel cuore della notte, qualche volta simultaneamente in vari punti dello stesso paese; e un pugno di soldati doveva uscire contro una moltitudine armata che li superava di numero cento volte, e batteva furiosamente alle porte della caserma e lanciava sassi alle finestre e minacciava di appiccare il fuoco alla casa, gridando “Morte agli avvelenatori, morte agli assassini del popolo!” e ogni altra maniera di vituperi. Le grida furenti risonavano improvvisamente nei silenziosi dormitori, i soldati balzavano dal letto esterrefatti, si vestivano in furia, accorrevano gli ufficiali, si poneva mano alle armi,  si scendevano precipitosamente le scale, si faceva impeto sopra la folla. La folla si apriva, si sparpagliava, tornava ad accalcarsi, urlando, fischiando, gittando sassi, e i soldati un’altra volta facevano impeto e un’altra volta la folla si sperdeva, e avanti così per delle ore, per tutta la notte, molte volte per tutta la mattina seguente,Quando gli assembramenti erano di poca gente, i soldati uscivano disarmati, tentavano di quetarli con le buone parole, colla persuasione, coll’amorevolezza; ci riuscivano tal volta; tal altra erano aggrediti, percossi, e allora ritornavano di corsa alla caserma, s’armavano, uscivano di bel nuovo; i sediziosi si rinchiudevano nelle case, traevano le fucilate dalle finestre; bisognava gettar giù le porte, penetrar nelle case, venire alle mani. Il giorno continue fatiche; la notte sonni brevi ed interrotti; ansietà e pericolo sempre. Oltre tutto ciò, nella maggior parte dei paesi, bisognava che i soldati andassero a levar via i cadaveri dalle case, a trasportarli ai cimiteri sui carri del reggimento, a scavar le fosse e seppellirli. Talora il popolo vi si opponeva fieramente; bisognava penetrar nei suoi luridi abituri colle baionette alla mano, impadronirsi dei cadaveri a viva forza. Questi cadaveri bisognava qualche volta andarli a cercare per la campagna, e quando le braccia dei soldati non bastavano all’uopo, era mestieri obbligare i contadini a prestar l’opera loro, minacciandoli, trascinandoli. Bisognava impedire alla gente di fuggir dai paesi, inseguirla, ricondurla alle proprie case, tradurvela a forza, pigliando pel braccio ad uno ad uno intere famiglie di pezzenti, torme di fanciulli e di donne che rompevano in pianti e in grida disperate.

In tutti i corpi, in tutti i distaccamenti si facevano collette di denaro per le famiglie più indigenti; in alcuni paesi si distribuiva ogni giorno una quantità di pane; altrove di carne e minestra;  dove non si poteva dar altro, si davan gli avanzi del rancio, si dava della paglia, dei panni vecchi, qualche cosa. In molti corpi si costituirono comitati di soccorso permanenti; gli ufficiali andavano ogni giorno in volta per le case dei poveri, a recar soccorsi, a dar consigli, a invigilare; i soldati somministravano all’ospedale i pagliericci dei loro letti, si offrivano spontanei di andare ad assistere gli infermi nei lazzaretti e nelle case private, e v’andavano e vi facevano coraggiosamente e lietamente il loro dovere sino all’estremo. Nei paesi rimasti privi di farmacisti andavano essi a distribuire le medicine nelle botteghe, sorvegliati dai medici militari e le portavano alle case dove occorrevano. In altri luoghi, dove eran chiuse persino le botteghe degli alimenti più necessari alla vita, fattele aprire a forza, provvedevano essi stessi o soprintendevano alla vendita. Spesso erano costretti a tenere aperti i mercati, parte sorvegliando lo spaccio delle derrate parte tutelando l’ordine e la pace continuamente minacciata. Frequentissimamente, sia nei villaggi che nelle città, dovevano impastare e infornare il pane lavoro che non si volea far da alcuno, per la credenza che sudando si contraesse il colera; e non di rado si riducevano a spazzare le strade  e le case dei poveri insieme ai carabinieri e alle guardie di sicurezza pubblica, perché non c’era chi si volesse sobbarcare a quella fatica pericolosa. Incarichi meno umili, ma assai più inusati e difficili, toccavano spesse volte agli ufficiali, che dovean farla da sindaci nei villaggi disertati dalle autorità, e talora da medici, e sempre da limosinieri e da missionari di civiltà in mezzo a popolazioni stupidite ed esasperate dalla paura e dai patimenti, e accese di passioni feroci. Lo stesso era dei medici militari, a cui, oltre la cura de’ soldati, incombeva quasi dappertutto quella del popolo, del quale bisognava che prima essi distruggessero i pregiudizi e vincessero le ripugnanze e gli odii ragionando e pregando. Lo stesso dei comandanti dei corpi,  incalzati da mille bisogni, stretti da  mille difficoltà,affollati da mille cure, sempre in apprensione per la loro truppa divisa e sparsa di qua e di là, continuamente in giro ed in pericolo. Per tutti poi un immenso dolore: quello di dovere ogni giorno dire addio per sempre a tanti bravi soldati,  a tanti buoni compagni, a tanti amici cari da lungo tempo.

 

***

 

Una delle città in cui  più generalmente si dette fede al veneficio, fu Catania, dov’era di presidio il nono  reggimento di fanteria.

Un giorno, in una via disusata, alcune donne del volgo videro un soldato, con un involto sotto il braccio, entrare a passi frettolosi in una casa, dove, poco prima,una   fanciulla era stata colpita dal colera. Cominciarono a fantasticare fra di loro sul perché quel soldato fosse entrato in quella porta “Avete notato che cosa aveva sotto il braccio? –Avete osservato come aveva la faccia torva, e come si guardava attorno con sospetto?” Tutti gli avevano veduto qualcosa di strano e di  malaugurato. Andarono verso quella casa e si fermarono davanti alla porta. Era chiusa; i sospetti si accrebbero. Picchiarono; nessuno venne ad aprire.Chiamarono ad alta voce  quei di dentro; nessuno rispose. Non c’era più dubbio: in quella casa si stava consumando un delitto. Levarono alte grida, percossero furiosamente la porta, lanciarono sassi nelle finestre; in meno di un minuto la strada era piena di gente armata di bastoni , di scuri e di coltelli; la porta fu rovesciata, la folla si precipitò nella casa. Quand’ecco si schiude rapidamente una delle finestre del primo piano; un uomo in maniche di camicia balza in piedi sul davanzale, manda un altissimo grido, salta giù nella strada, cade, si rialza, “ c’è un soldato che avvelena!” urla atterrito alla gente che gli si affolla intorno; fende la calca, divora la strada, scompare. Era il soldato istesso, entrato poco prima nella casa per dare ad una lavandaia un involto di biancheria del suo furiere. Una sera, lontano dall’abitato, un branco di contadini che andava in traccia d’avvelenatori, s’imbattè in un soldato. Appena lo videro, gli mossero incontro di corsa. Il soldato, malaccorto, voltò le spalle e si diè a fuggire. Fu raggiunto, afferrato da dieci mani, tradotto dietro ad una casa romita, messo colle spalle al muro, minacciato di morte. “Dove tieni il veleno?” gli domandarono dieci voci in una. “Io non ho veleno,….” Rispose balbettando il soldato, bianco come un cadavere.-“Dove tieni il veleno?” insistettero gli altri minacciosamente. E uno gli tolse il  chepì, lo esaminò e lo butto in terra; un altro gli strappò dal collo la cravatta. “Fuori questo veleno!” e uno che lo aveva afferrato pel collo gli fece batter la testa nel muro. “Non ho nulla…,” rispondeva con voce spenta  e supplichevole il soldato, “Ah non hai nulla eh ? Ora lo vedremo se non hai nulla!” digrignavano quei feroci, e sbottonandogli il cappotto e apertagli la camicia, lo andavono frugando per tutto,. “Levategli il cinturino,” disse uno. Gli afferrarono subito il cinturino, e glielo tirarono di qua e di là per levarglielo d’addosso; non ci riuscivano, strillavano, bestemmiavano. “Oh!.... lasciatemelo stare…,”implorava il povero soldato, “lasciatemi stare il cinturino!....” glielo sciolsero e glielo buttaron via, lo costrinsero a svestire il cappotto, malmenandolo, percotendolo, facendogli correre a fior di pelle le punte dei coltelli, urlandogli nell’orecchio ogni sorta di vituperi e di maledizioni. L’infelice, a cui restava tanta forza appena da reggersi in piedi, si lasciava fare ogni cosa senza resistenza, quasi fuori dai sensi colla testa e le braccia penzoloni, come una persona morta, mormorando di tratto in tratto con un filo di voce:”La mia baionetta…. Io non avveleno nessuno….lasciatemi stare…. datemi la mia roba…. La mia baionetta!...” L’avrebbero certamente ucciso; ma volle la fortuna che passasse per di là una pattuglia, la quale accorrendo, precipitosamente, disperse la turba proprio nel punto che stava per spargere il sangue di quello sventurato. E questo è quanto accadde di meno doloroso in quell’ordine di fatti, poiché a Catania almeno sangue di soldati non se ne sparse, e non si può dire lo stesso di tutti gli altri paesi. Che cosa doveva provare, in quei giorni, il cuore dei soldati! Quali saranno stati i loro pensieri, i loro discorsi, a vedersi così ferocemente esecrati da coloro stessi a cui sacrificavano il riposo, la salute, la vita! A Sutèra, piccolo paese della provincia di Caltanisetta, c’era un pelottone del 54° reggimento di fanteria, comandato dal sottotenente Edoardo Cangiano. La mattina del 22 giugno capita alla caserma un contadino tutto affannato e si presenta all’ufficiale. “Oh signor ufficiale!” esclama con voce supplichevole, “venga lei, per carità, ci soccorra lei,… Qui presso, a Campofranco, è scoppiato il colera; metà della gente è fuggita; le vie son piene di morti; non ci sono medici, non ci sono becchini, non c’è nemmeno da mangiare….; è una desolazione….; quei che non morranno di colera, morranno di fame….. Oh venga lei, venga subito lei!” Immantinente il pelottone è in armi, un avviso al sindaco, un dispaccio al comando militare di Caltanisetta, un avvertimento al sergente che resta in paese con qualche soldato, e poi a gran passi alla volta di Campofranco. C’era da fare un miglio di strada o poco più, per un viottolo serpeggiante in mezzo ai campi. Splendeva un sole ardentissimo. I soldati, grondanti sudore sin dal primo uscire dal paese, procedevano un dietro l’altro, in lunga fila,  con andare fra il passo e la corsa e l’orecchio intento al contadino, il quale con interrotte parole dipingeva al Cangiano il triste spettacolo che gli avrebbe offerto il paese, “Animo, animo,” questi gli rispondeva tratto tratto, “co’ lamenti non si fa nulla; ora è tempo  di fatti”. E sempre più affrettava il passo, e con esso i soldati, tanto che finirono per correre addirittura. A un certo punto si cominciarono a  veder da lontano uomini, donne e fanciulli errare incertamente fra i campi, accennarsi l’un l’altro i soldati, soffermarsi, fuggire correre avanti e indietro, chiamarsi ad alta voce, radunarsi e disperdersi, come gente inseguita e fuor di senno dalla paura. A misura che il drappello si avvicinava al villaggio, i fuggiaschi spesseggiavano, l’agitazione,  il gridio crescevano; intere famiglie s’aggiravano per la campagna portando o traendosi dietro le masserizie; alcuni che avean posto la roba in terra per riposarsi, alla vista de’ soldati la ripigliavano in fretta e s’allontanavano volgendosi indietro paurosamente; altri cadevano spossati, altri si rialzavano; molti  dei più lontani, rivolti verso i soldati, mandavano alte grida e agitavano le braccia in atto di maledire”Ah signor ufficiale!” esclamava il contadino, “Questo è ancor nulla”-“Non importa”, rispondeva il Cangiano “Siamo preparati a tutto.” Apparvero le prime case del paese e l’imboccatura della prima strada. La gente veniva fuggendo alla volta dei soldati, scortili appena, parte voltava le spalle e tornava in paese, correndo e gridando, come se annunciasse un assalto di nemici; parte si gettava a destra e a sinistra pei campi. Sul primo entrare nella strada, si videro due cadaveri stesi in terra davanti alla porta di una casa disabitata. Appena entrati, un rapido sparir di gente nelle case, un chiudersi impetuoso di porte  e di finestre, strida acute di donne, pianti di bambini, e in fondo alla strada un rapido affollarsi e un rimescolarsi rumoroso di popolo, poi una fuga generale. “Presto,” gridò il Cangiano, “dieci soldati girino intorno al paese, e vadano a fermar quella gente”. Dieci soldati si spiccarono dal pelottone ed infilarono di corsa una via laterale. Gli altri tirarono innanzi. La gente impaurita continuava a rinchiudersi nelle case. “Non vogliamo far male a nessuno!” gridava ad alta voce il Cangiano; “siamo venuti ad aiutarvi, siamo vostri amici; uscite, buona gente, uscite pure di casa!” Qualche porta e qualche finestra cominciava ad aprirsi; qualche persona,  alle spalle dei soldati, cominciava a uscire; nell’interno delle case s’udivan voci fioche  di lamento; nella strada, dinanzi alle porte, giacevano protesi molti infelici estenuati dalla fame e languenti, o presi dal morbo, immobili e intorpiditi che parevano morti; qua e là masserizie abbandonate sugli usci o in mezzo alla via,e ad ogni passo paglia sparsa e ciarpame. In ogni viuzza laterale che mettea nei campi, uno o due o più cadaveri, quali coperti di paglia,  quali di terra, quali di pochi cenci, fra cui apparivano le membra gonfie e nerastre; altri buttati a traverso le porte, metà dentro e metà fuori delle case. “Guardi, signor ufficiale, guardi!” esclamava lamentevolmente il contadino.-“Provvederemo a tutto,” rispondeva il Cangiano, “coraggio!” In quel punto, la folla dei fuggitivi ch’era stata respinta addietro da quei dieci soldati, veniva tumultuosamente verso l’ufficiale. “schieratevi” gridò questi voltandosi ai soldati; ed essi si fermarono e si schierarono a traverso la strada, Il Cangiano aspettò la turba di piè fermo. Questa gli si arrestò davanti ad una diecina di passi, cessò di gridare, e stette guardando con fiero cipiglio i soldati. Era tutta povera gente stracciata,facce pallide e ossute, occhi stralunati, fisionomie a cui i lunghi patimenti avevano dato un’espressione come di stanchezza mortale e insieme di selvaggia fierezza. “Vogliamo uscire!” gridò una voce di mezzo alla folla. E tutti ripeterono il grido e la folla ondeggiò.  “Perché volete uscire?” domandò il Cangiano con voce risoluta, ma temperata da tal quale dolcezza.  “Bisogna restare; bisogna aiutarsi l’un l’altro; alle disgrazie comuni bisogna rimediare in comune; è un  farle peggiori, il pensare ciascuno  solamente per sé e nulla per tutti…. Noi siamo venuti a soccorrervi.”-“Vogliamo uscire!” gridò minacciosamente la folla, e que’ di dietro incalzando, i primi furon balzati innanzi di due o tre passi. “ Fatevi indietro,” disse con gran calma il Cangiano, e poi ad alta voce: “ascoltate il mio consiglio, le donne e i fanciulli rientrino in casa; gli uomini restino per aiutare i soldati a seppellire i morti..”- “ Noi non vogliamo morire!” rispose imperiosamente la moltitudine, e levando un rumor confuso di grida, si rimescolò e ondeggiò un’altra volta, come  per pigliar lo slancio e gettarsi contro i soldati. “Lo volete?” tonò allora l’ufficiale, “E sia!” E, voltosi indietro gridò : “pronti!” Il pelottone levò e spianò i fucili in atto di sparare, e la folla, gittando un grido di spavento disparve  in un attimo per le vie laterali. Gli altri dieci soldati si ricongiunsero ai primi. “Qui ci vuol fermezza e coraggio,” esclamò il Cangiano; “bisogna sotterrar subito i morti; metà di voi vada in campagna e mi conduca qui a forza quanti  più uomini potrà, e gli altri vengano con me.” Metà del pelottone si diresse a rapidi passi fuor del paese. Gli altri cominciarono a correre di qua e di là, a entrar nelle case, a frugar dappertutto in cerca di zappe, di pale, di carrette, di panche di assi, su cui poter adagiare i morti per trasportarli fuor del paese. In pochi minuti trovaron tutti qualcosa di servibile a quell’uopo, e parte cominciarono a raccogliere i cadaveri, parte, recatesi al cimitero vicino, si misero a scavare le fosse in gran fretta gli altri presero a sgombrar le strade degli inciampi più incomodi e delle sozzure più schifose.  Intanto il Cangiano, seguito da un soldato, andava in cerca d’una casa adatta all’uso di ospedale, fermando quanta gente del paese incontrava per via, consigliandoli, esortandoli, pregandoli, e nel passare sollecitava i soldati,  dava ordini e suggerimenti, e porgeva conforti di parole affettuose. Trovò la casa, la fece sgombrare, vi fece portar dentro i letti dalle case abbandonate, andò egli stesso con quattro soldati a battere alla porta di tutti gli abituri, a domandare che gli lasciassero portar via gli infermi, che egli li avrebbe fatti assistere,curare, e le loro famiglie  sarebbero state soccorse. Rispondevano di no; egli offriva del denaro, pregava, minacciava; tutto era inutile Allora i soldati entravano a forza nelle case; due di essi s’impossessavano dell’infermo e gli altri tenevano indietro con le armi i parenti ed i vicini. Spesso bisognava levar di peso,  di sulle soglie delle case, le donne che ne chiudevan l’accesso co’ propri corpi; bisognava lottare con esse, ributtarle malamente, trascinarle. Dopo lunga fatica, un buon numero di infermi eran già allogati nel nuovo ospedale, e due o tre provvedevano ai loro bisogni, aspettando l’arrivo dei soccorsi da Caltanisetta, quando tornò in paese l’altra metà del pelottone, tirando con se di viva forza una frotta di contadini arrestati per la campagna. Corse loro incontro il Cangiano, li scompartì in vari gruppi, e li fece accompagnare ai vari lavori. I soldati nuovamente arrivati presero a lavorare anch’essi; in poco tempo i cadaveri ch’eran per le strade  furono sepolti; le strade sgombre e ripulite; si continuò ad andare in volta a prendere gl’infermi, e a poco a poco, ora colla persuasione, ora colla forza, si riuscì a radunarne nell’ospedale la massima parte; da ogni lato era un continuo andirivieni, un chiamarsi, un  affaccendarsi continuo di soldati. Il popolo, che  cominciava a radunarsi, li stava a guardar di lontano tra sospettoso e meravigliato; la gente sparsa per la campagna si veniva poco a poco avvicinando al paese per vedere che cosa vi accadesse. I primi arrivati, non vedendo più i cadaveri davanti alle case pigliavano animo e s’addentravano; molti cominciarono spontaneamente a pulir le strade di quanto vi rimaneva di immondo; altri a rientrar nelle case;; alcuni ad affollarsi intorno al Cangiano, guardandolo attoniti, senza far parola, trattenuti ancora da un po’ di diffidenza; ma coll’animo preparato a render grazie e a pregare. E il Cangiano, pur non ristando dal correre di qua e di la per incoraggiare i soldati, si voltava tratto tratto alla gente che lo seguiva. “ su via, andate ad aiutare que’ poveri giovani, che è tanto tempo che faticano per voi: andate a chiamare la gente ch’è fuggita in campagna; facciamo tutti  qualche cosa; rimettiamo  un po’ d’ordine nel paese; il sindaco tornerà; torneranno anche i signori e vi soccorreranno; torneranno i fornai, verranno dei medici; presto arriveranno soccorsi da Caltanisetta; coraggio via, lavoriamo tutti; a tutte le sventure c’è rimedio, rimedieremo anche a questa. Siamo venuti qui pel vostro bene, persuadetevene, buona gente; che cosa avete a temere dai soldati? Non siamo tutti dello stesso paese, non siamo i vostri fratelli, i vostri difensori? A queste parole seguì un mormorio di approvazione; qualcuno se staccò e corse in aiuto ai soldati; altri andarono verso la campagna; molti si sparsero per le strade; i restanti si fecero attorno all’ufficiale con lamenti e supplicazioni: “Siamo senza pane…. Abbiamo fame….”-“ lo so buona gente, lo so; ancora un po’di pazienza, e il pane arriverà; farò tutto quel che posso per voi; manderò i miei soldati a pigliarvi da mangiare a Sutèra;  vi daremo tutto quello che abbiamo. Ma intanto bisogna lavorare, bisogna portar via i morti, curare i malati, aiutarsi fra tutti.” Allora la gente ringraziava, poi ricominciava a pregare, a lamentarsi a  chieder pane. A un tratto, arrivò correndo un soldato e parlò all’orecchio al Cangiano. Un’assai dura prova di carità e di fortezza restava a farsi! Il Cangiano avvisò che si dovesse fare ogni cosa di nascosto alla popolazione, ordinò ai presenti d’andar ad aspettare i soccorsi sulla strada che mena a Caltanisetta, chiamò quindi i soldati co’ fucili, fece venire innanzi venti contadini colle zappe , e s’avviò verso un’estremità del villaggio. Là v’era una piccola chiesa abbandonata.  Si fermarono dinanzi alla porta, la tentarono; era chiusa. L’atterrarono e fecero tutti un passo indietro levando un grido di ribrezzo. In mezzo a quella chiesa, poco più ampia d’una sala ordinaria, c’era un mucchio di venti cadaveri imputriditi.. “avanti!” gridò l’ufficiale. I soldati si gettarono dentro la chiesa; i contadini dettero indietro. “Avanti!” gridò un’altra volta il Cangiano. Non si mossero. Egli fece un passo avanti, essi si diedero alla fuga, i soldati  si slanciarono loro alle spalle, e li ebbero in  un momento raggiunti ed afferrati. “Trascinatemi qui codesti poltroni!” gridava di sulla porta della chiesa il  Cangiano. I soldati li ricondussero a gran stento, traendoli per le braccia, cacciandoli innanzi a spintoni, minacciandoli con le armi, ma al momento di entrare, quelli presero a resistere con maggior forza, puntando i piedi come i cavalli restii, dibattendosi ed urlando disperatamente, quasi li volessero trarre al supplizio. “Fuori le baionette!”gridò sdegnosamente l’ufficiale, afferrandone uno per la vita e buttandolo in mezzo alla chiesa; i soldati snudarono le baionette e le alzarono in atto di ferire. “Avanti poltroni, o ve le cacceremo nelle reni!”-“Voi volete farci morire!” i contadini gridavano.  “Moriremo tutti!” rispondevano fieramente i soldati; “Ma bisogna entrare!” E con un estremo sforzo li spinsero dentro tutti e venti. Qui cominciò un orribile lavoro. I Cadaveri si trovavano in uno stato di completo sfacimento, eran tutti un flosciume senza forma, da non potersi nemmeno sollevar da terra. Bisognò rompere le panche della chiesa, ficcare due assicelle sotto ogni morto, e afferrandole per le estremità, alzare così il fedito peso, colle braccia tese e la faccia rivolta da un lato, chè l’aspetto di que’ corpi era tale, da non potervi fermare lo sguardo. A ogni crollo ch’e’ ricevessero, colava dalle orecchie e dalle bocche, e si spandeva per quei visi, un verde marciume, e le nere carni delle braccia e delle gambe spenzolanti pareva si volessero  staccare dall’ossa e dissolversi. Il Cangiano mandò quattro soldati a raccogliere legname nelle poche case abbandonate che eran là presso. Questi, non trovandovi altro, presero tavole, seggiole, imposte, tutto quanto si potesse bruciare, e ammonticchiarono ogni cosa nel mezzo d’un campo poco lontano dalla chiesa. I cadaveri furono ad uno ad uno portati fuori e rovesciati su quel mucchio; vi si appiccò il fuoco e ogni cosa bruciò. In Campofranco non restava più un cadavere. Tra sepolti e bruciati se n’eran levati di mezzo più di sessanta.

Viste guizzare le prime fiamme, il Cangiano tornò nel  centro del paese, dove riprese e proseguì infaticabilmente la sua opera di prima, finché arrivò da Caltanissetta un capitano della piazza con buona provvigione di alimenti, di medicine, e di denaro, e con questi ripercorse, casa per casa, tutto Campofranco, beneficando i poveri, soccorrendo gl’infermi,rassicurando i paurosi, rimettendo in tutti gli animi un po’ di speranza e di pace. In breve tempo rientrarono tutti i fuggiaschi, il municipio si riordinò, ognuno riprese le sue occupazioni; il paese mutò aspetto, e il Cangiano  e i suoi soldati ritornarono a Sutèra accompagnati dalla benedizione di tutti. Anche a Sutèra infuriava il morbo, e anche là il Cangiano fece veri miracoli di carità e coraggio. L’undici d’agosto la Giunta municipale della città lo acclamò unanimemente benemerito del paese, e gli espresse la gratitudine della cittadinanza con una lettera piena di entusiasmo e di affetto. Possano queste povere pagine far sì che nel cuore di molti, come nel mio, suoni caro e riverito il suo nome. 

Edmondo De Amicis