STUDI RISORGIMENTALI

Cosa dicono di noi

Le Camicie Rosse di Mentana

Armi e fatti d'arme

Battaglie nella prosa e nella poesia

Canti patriottici e poesie

Il Regno d'Italia

Italiani in Africa

4a guerra d'Indipendenza

I confini d'Italia

Le terre Irredente

Il genocidio degli Italiani

Corpi ed armi dell'Esercito Italiano

Link



 

Gaeta, ultimo atto!

GAETA - ULTIMO ATTO!

La città di Gaeta ha sostenuto nel tempo ben 14  assedi. I più importanti indubbiamente furono quello del 1806, quello del 1815 e quello del 1860-61 che segnò la fine della dinastia Borbonica di Napoli come sovrani del Regno delle Due Sicilie. Inoltre, diverse volte, alcuni pontefici, costretti per vari motivi ad abbandonare Roma, trovarono rifugio fra le sue robuste mura ed a tal proposito ricordiamo l’anno 1849, quando Pio IX, accolto dal Re di Napoli, vi trovò rifugio insieme al Granduca di Toscana Leopoldo II. Allora Gaeta, divenuta la cittadella della Reazione, per nove mesi ebbe fama di risonanza mondiale. Nel 1849 si tenne a Gaeta anche una conferenza, esattamente dal 30 marzo al 22 settembre, sotto la presidenza del  Cardinale segretario di stato G. Antonelli, tra i diplomatici delle potenze cattoliche accreditate presso la S. Sede che avevano seguito Pio IX da Roma. Alla conferenza parteciparono F. E Harcourt e A. de Rayneval per la Francia, M. Esterhàzy per l’Austria, F. Martinez de la Rosa per la Spagna, C. Ludolf per Napoli. Fu deciso l’intervento armato contro la Repubblica Romana, ma nulla, circa le riforme da concedere, una volta restaurato il governo pontificio.

L’ASSEDIO DEL 1806

Nel 1806 il generale francese J.-L. Reynier, intimò al principe d’Assia Philippstal la resa della città. Alla resistenza della città, il Massena, inviò nuove truppe al comando del generale Lancour così che la città venne investita da un esercito che contava  14000 uomini con 70 cannoni. La città resistette per ben cinque mesi, ma fu costretta a capitolare il 18 luglio 1806.

 L’ASSEDIO DEL 1815

Nel 1815, un esercito austriaco, al comando del barone Von Lauer, con l’aiuto della flotta inglese, investì la piazza di Gaeta sia per via di terra, sia per mare. Ed i difensori, 3000 uomini in tutto, comandati dal generale Alessandro Begani, nonostante che Murat fosse ormai caduto, vollero mantenersi al loro posto d’onore. Con il loro coraggio  fecero sì che gli attaccanti fossero ricacciati più volte e che alla fine i medesimi si dovessero limitare alle sole azioni di blocco, in quanto altro tipo di assalto costava al nemico perdite ingentissime essendo le loro posizioni soggette ai tiri della piazza. I difensori resistettero dal 16 luglio all’8 di agosto 1815 e furono costretti a capitolare solamente per via della mancanza di viveri e per le malattie che infierirono in mezzo alle truppe. Per la resa il generale Begani ottenne onorevoli condizioni.

 

LA RESA DI CAPUA ED IL COMBATTIMENTO DI MOLA DI GAETA 1860

Garibaldi, entrò in Napoli, praticamente da solo, senza la sua armata, su una carrozza presa a nolo, seduto a fianco del cocchiere la sera del 7 settembre 1860. Lasciò Napoli il generale Sirtori incaricato della prodittatura, in attesa del marchese Pallavicino.  Stabilito il suo quartier generale a  Caserta ed i suoi avamposti a S. Maria, era  sua intenzione impadronirsi di Capua ma senza capire che con la sua piccola armata di  appena 14000 uomini non ce l’avrebbe fatta. Tuttavia continuò le sue operazioni. I Garibaldini passarono il Volturno presso Cajazzo ed aggirarono Capua che si trovò  così investita sia dalla parte di Napoli sia dalla parte di Gaeta. I  Borbonici si erano ritirati in quella città dopo aver battuto i Volontari nella direzione di Napoli ma anche dopo averle prese a S. Germano. Il 18 il generale garibaldino Turr era stato incaricato di occupare Cajazzo in quanto in quella località era possibile gettare un ponte sul fiume per separare Capua da Gaeta. Dell’affare del ponte era stato incaricato il Comandante  Cattabene che se ne disimpegnò con una certa fortuna, mentre il brigadiere Rustow con 2000 uomini doveva effettuare un falso attacco contro Capua  per ingannare il nemico. Disgraziatamente, trascinato dall’ardore dei suoi uomini,  si venne a trovare di fronte a ben 11000 Borbonici e fu veramente fortunato se dopo una battaglia di  ben 6 ore poté ritirarsi con appena un centinaio di perdite. Per quanto tutto ciò che era successo aveva stornato l’attenzione dal Volturno superiore,  si capì comunque  che i napoletani  e i soldati stranieri che si appoggiavano alle fortezze, che offrivano loro un sicuro riparo,  non erano milizie da poco e su di esse Francesco II  poteva ben contare. I Garibaldini della prima ora  erano ormai decimati ed il rimanente in gran parte formato da pastori Calabresi e Siciliani, armati per lo più di tromboni e schioppi, in qualche caso mancavano di disciplina e talvolta di coraggio. L’organizzazione dell’armata Napoletana sulla quale Garibaldi aveva fatto gran conto non sembrava organizzarsi per nulla e la marina soprattutto se disponeva di ufficiali, difettava  quasi totalmente in marinai. A Cajazzo dove egli, per difendere  importanti posizioni,  disponeva di circa mille uomini, il colonnello Vecchieri aveva mandato a chiedere cartucce e gli si era risposto baionette, quando domandò cannoni, si ritenne di non rispondere affatto.   Il 22 di Settembre 8000 Borbonici, di cui circa 3000 erano svizzeri e bavaresi, con la cavalleria escono da Capua per riconquistare Cajazzo. Per meglio difenderla il Vecchieri marciò animosamente contro il nemico, finite le munizioni, attaccò alla baionetta, ma dopo un’ora di combattimento fu costretto a rientrare in città e qui ebbe l’amara sorpresa di trovare preti, monaci e paesani che accolsero i garibaldini a colpi di fucile, con le scuri e le falci. Si fecero barricate, furono chiesti rinforzi al Medici, ma contro l’artiglieria borbonica che incominciò i suoi tiri non si poté resistere. Fu giocoforza fuggire in una mischia spaventosa  difendendosi perfino a colpi di coltello e di pugnale.  400 Garibaldini morirono, la compagnia Bolognese rimase distrutta, gli altri si salvarono a nuoto. Fu un momento che se Francesco II avesse voluto, mostrando del coraggio, sarebbe potuto rientrare a Napoli. L’armata garibaldina aveva quartier generale a Maddaloni e con 10000 uomini comandati da Medici e Milbitz,  aveva  avamposti da S. Leucio sino alla cima del monte S. Michele. I Borbonici erano padroni del corso del Volturno che potevano attraversare in ogni luogo e Francesco II incoraggiava personalmente le sue truppe.   Era il primo di ottobre. Alle quattro del  mattino i Borbonici uscirono da Capua con 13000 uomini e 5000 cavalieri al comando del generale Ritucci (antico ministro della guerra). Il piano era di attaccare di fianco  le posizioni Garibaldine  per aggirarle e circondare l’intera armata di Garibaldi che aveva solo 10000 uomini! Fortunatamente giunsero in tempo 5000 rinforzi fra cui moltissimi Piemontesi che tenevano ormai da tempo guarnigione  nelle fortezze di Napoli. Essi arrivarono sul campo di battaglia quasi a sera  ma furono i Piemontesi utili soprattutto per servire i pezzi d’artiglieria. Erano accorsi, perfino i marinai della Fregata inglese Renown. Garibaldi fece effettuare movimenti simili a quelli  effettuati dai Borbonici e questi, che fino a Mezzogiorno avevano  avuto il sopravvento, pian piano cominciarono a cedere. Il colonnello Spangaro, all’estrema destra, verso S, Angelo, conquistò al nemico ben sette cannoni. Bixio non ebbe successo a  Maddaloni  e sempre a S. Angelo la vittoria venne  furiosamente contesa. I Napoletani, da parte loro, aggirata la montagna, avevano inchiodato cinque cannoni, uccidendo gli artiglieri sui pezzi. Gli Ungheresi che Garibaldi aveva con sé, con un assalto alla baionetta fecero rinculare il nemico ma da parte garibaldina e piemontese c’erano 1500 uomini fuori combattimento,i Napoletani ne contavano 2000. Questa giornata, verrà ricordata con il nome di “Battaglia del Volturno” e fu veramente gloriosa, ma dimostrò in modo inequivocabile le difficoltà  che Garibaldi incontrò ed avrebbe ancor più incontrato se avesse voluto continuare a combattere con i soli Volontari. Tutto questo sarà poi negato da Garibaldi e dai i suoi ufficiali, fatto è che, bando alle chiacchiere, da quel momento in poi Garibaldi si mantenne sempre sulla difensiva attendendo saggiamente l’arrivo delle truppe  Regie di Vittorio Emanuele.    Dopo l’arrivo dell’esercito regolare Piemontese, al campo, davanti a Capua,  si trovavano 30000 uomini e sedici batterie. Era un fuoco continuo, si sparava su tutto, anche all’apparire fulmineo di una testa d’una vedetta. I Sardo-Piemontesi, invece, se ne stavano lì zitti  zitti,  quieti, senza rispondere nemmeno alle provocazioni, con il chiaro intento di risparmiar munizioni e di non affaticare le seconde linee con falsi allarmi. I Napoletani il 13 di ottobre tentarono una sortita in 8000, al comando del generale Del Re, ma, dopo due ore e mezza di combattimenti, furono costretti a ritirarsi e rientrare in Capua abbandonando  anche le posizioni che avevano sul Volturno. Ci riprovarono con i Piemontesi il  25, ma questa volta  ci lasciarono veramente le penne in quanto persero e finirono nelle loro mani, due cannoni, una bandiera, 800 prigionieri fra cui un centinaio di ufficiali ed il generale Scotti. Il 26 un nuovo vivissimo attacco fu condotto  contro l’armata Piemontese  comandata da Vittorio Emanuele e se la cavarono, questa volta, con solo 600 prigionieri. Il 27 i Borbonici si stabilirono dietro il Garigliano, coperti dal fiume ed appoggiati da montagne di difficile accesso. L’ammiraglio Persano che si trovava alla foce del Garigliano avrebbe voluto indirizzare  il fuoco delle sue navi in quella direzione, ma dovette desistere in quanto la Divisone navale francese, comandata dall’ammiraglio Le Barbier, minacciava di intervenire con la forza se non si fosse tenuto conto della sua opposizione. Forse l’ammiraglio francese non aveva ben compreso gli ordini di Parigi o semplicemente comprendeva quello che a lui faceva più comodo capire, smentendo comunque la politica, tanto sbandierata, del non intervento. Nel Frattempo i Piemontesi passarono il Volturno a Venafro ed a Cajazzo tagliando le comunicazioni fra Capua e Gaeta. Il primo di  Novembre alle  16 p.m. incominciò un furioso bombardamento su Capua. Alle due  della mattina successiva, fu firmata la capitolazione con il generale Della Rocca. La guarnigione Napoletana di Capua, forte di 10000 uomini, ma con 1500 ammalati e feriti, ottenne gli onori militari. Dopo 48 giorni di resistenza era caduta Capua, ma difficilmente i garibaldini sarebbero giunti a tanto successo se non fosse intervenuto l’esercito regolare Piemontese! Il 3 novembre, la  Divisione Sonnaz ed alcuni reparti della flotta si impadronivano di tre passaggi sul fiume Garigliano. I soldati Borbonici costeggiando il mare si ritirarono su Gaeta protetti dai cannoni della flotta francese. A causa di tutti questi movimenti strategici il generale Sonnaz, occupò Mola di Gaeta situata a qualche lega dalla piazza forte di Gaeta, e 30000 Napoletani con 5000 cavalli e 32 cannoni furono costretti a fuggire in territorio pontificio rifugiandosi a Cisterna e Terracina. Nella fortezza di Gaeta dettero le dimissioni i generali Salzano, Barbalonga, Palazzi e Colonna. Quest’ultimo minacciò pure che se le sue dimissioni non fossero state accettate, sarebbe passato al nemico con tutte le sue truppe.    L’assedio fu commesso alla direzione del generale Cialdini ed  al generale del Genio Menabrea, antico membro della destra parlamentare Piemontese che, pur di servire il suo paese,  aveva tosto messo da parte, patriotticamente,  le sue opinioni e le sue preferenze. Questi, prima di piantare le batterie, fece costruire una lunga strada che, aggirando il monte Conca, terminava alle posizioni dei Cappuccini del monte S. Agata e del monte Secco. La piazza  di Gaeta ancora protetta, dalla parte del mare dalla flotta francese continuava a vettovagliarsi a Terracina, occupata dal generale Goyon, malgrado le proteste inglesi contro la violazione del Principio di non intervento.

 LA DIFESA E LA RESA DI GAETA

Dopo la resa di Capua, i Borbonici  battuti dalla 1a Divisione Italiana, raggiunsero nella fortezza Francesco II, la corte, i ministri ed il corpo diplomatico e circa 12000 uomini che vi si erano rifugiati con circa trecento cannoni. Cialdini comandava il IV  Corpo d’Armata composto dalla 4a e  7a  Divisione comprendenti le Brigate Regina, Savona, Bergamo e Como, in tutto 16000 uomini. La flotta imperiale francese, alle rimostranze inglesi ed ai telegrammi indirizzati a Parigi da Vittorio Emanuele II, dovette ritirarsi su ordine dello stesso Napoleone III che abbandonò l’idea di proteggere Gaeta e Francesco II dal lato del mare tanto che  l’esercito Sardo si trovò in condizione di far costruire  ai suoi genieri il ponte sul fiume Garigliano, riducendo così al silenzio le opere avanzate costruite in Mola. Intanto i Borbonici tentarono due sortite, una il 12 novembre e l’altra il 29, ma ambedue fallirono ed il 9 gennaio Gaeta fu sottoposta ad un violentissimo bombardamento che costrinse la città a chiedere una tregua d’armi di 10 giorni che fu concessa. Partita la  Divisione Navale francese, il Persano, il 19 gennaio,  predispose, con le sue navi, il blocco di Gaeta, lato mare. Tre giorni dopo cominciarono i bombardamenti da tutti i lati e sulla spiaggia di Mola furono messi in batteria i nuovi cannoni rigati Cavalli. Le cannoniere Confienza, Vinzaglio, Veloce e Garibaldi procedettero all’attacco delle batterie esterne. La Carlo Alberto, la Vittorio Emanuele, la Monzambano e la Costituzione cominciarono a bombardare la città dalla parte del faro. Successivamente entrò in battaglia la nave ammiraglia Maria Adelaide, ma il Persano, dopo aver ricevuto qualche colpo dagli effetti poi non eccessivamente gravi, la fece ritirare. Dopo circa due ore di combattimento le navi minori Confienza e Vinzaglio chiesero ed ottennero di ritirarsi a causa dei danni ricevuti. La Garibaldi e la Veloce restarono a sostenere l’attacco dalla loro parte, insieme alla Costituzione inviata in loro aiuto dal Persano.  Nel pomeriggio le navi maggiori, Maria Adelaide, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele e l’Ardita sfilarono a mezzo tiro di cannone, di fronte alle casematte ed alle batterie centrali, colpendole con numerose bordate. La Vinzaglio, rientrata al combattimento, dovette nuovamente ritirarsi e raggiungere l’arsenale di Napoli, fortemente  danneggiata. Il  giorno successivo il Persano  tentò un colpaccio trasformando la Confienza, ormai molto danneggiata, in incendiaria, considerando anche l’audacia per cui era noto il suo comandante, ma non fu possibile portare a termine l’impresa, in quanto, quando i preparativi erano sul punto di essere ultimati, la piazza si arrese. Le operazioni di bombardamento, erano continuate di notte da navi isolate, attendendo il grosso dell’armata al blocco via mare per rendere impossibili i tentativi di rifornimento. Il 5 di febbraio, incendiatasi una polveriera, si aprì una grossa breccia nel bastione S. Antonio ed il Persano inviò la Garibaldi a completare l’opera con  prontezza ed ardimento. Il 6 di febbraio fu combinata una tregua d’armi di tre giorni durante la quale una nave prese a bordo 200 feriti Borbonici. Finita la tregua, i bombardamenti notturni ripresero ed in questi si segnalò la Regia Nave Carlo Alberto. Il 13 febbraio scoppiò la polveriera “Transilvania” e per la fortezza fu giocoforza capitolare. L’assedio finì appena firmata la capitolazione nella Villa Castellone di Formia. La difesa era costata ai Borbonici 826 morti ed oltre 500 feriti. I prigionieri furono inviati nelle isole del golfo di Napoli. Francesco II con la consorte ed una corte di 24 persone partì sul vapore francese Mouette diretto a Terracina per raggiungere Roma dove il Pontefice l’accoglierà. Il 17 il generale Cialdini sull’istmo di monte Secco, sotto le mura di Gaeta, fece celebrare una messa in suffragio dei caduti di ambedue le parti. In un ordine del giorno scrisse. “ La morte copre di un mesto velo le discordie umane e gli estinti sono tutti uguali agli occhi dei generosi. Le ire non sanno sopravvivere alla pugna. Il soldato di Vittorio Emanuele combatte e perdona..” Il 14 marzo si arrendeva a Cialdini la cittadella di Messina comandata dal vecchio generale Fegole. Ormai era tutto finito, il 20 si arrese anche quella di Civitella del Tronto al generale Mezzacapo. La Famiglia Reale Napoletana restò esule in Roma fino al 1870 quando si sposterà a Parigi, illudendosi fin quasi la prima guerra mondiale in sogni e tentativi di restaurazione.